ITALIANO DA NON DIMENTICARE

 

 

 

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INDRO MONTANELLI

 

Giovinezza

Montanelli si diplomò al Liceo di Rieti e in seguito si laureò in giurisprudenza a Firenze, un anno prima della durata normale dei corsi, con una tesi sulla riforma elettorale del fascismo in cui v'era sostenuto che si trattava puramente di un'abolizione delle elezioni, ottenendo come valutazione centodieci e lode. Successivamente frequentò uno stage a Grenoble in scienze politiche e sociali. Debuttò su Il Frontespizio (luglio-agosto 1930). Nel 1932 collaborò al periodico fiorentino l'Universale, con una diffusione di circa millecinquecento copie.

Esordì come giornalista di cronaca nera nel 1934 a Parigi, al Paris-Soir, collaborando contemporaneamente al quotidiano italo-francese diretto da Italo Sulliotti L’Italie Nouvelle. Fu poi mandato come corrispondente in Norvegia, da lì in Canada e poi assunto alla United Press negli Stati Uniti, continuando anche nella collaborazione con Paris soir. In questo periodo intervistò il magnate Henry Ford, che descrisse in maniera molto originale. Si propose come inviato in Etiopa, ma l'agenzia non acconsentì, e così volle partire volontario verso l'Abissinia, preso dagli ideali fascisti, come comandante di un battaglione di Ascari.

Durante la sua permanenza in Africa, scrisse un pezzo per Civiltà Fascista intitolato "Dentro la guerra":

Tornato in Italia, ripartì per la guerra civile spagnola, corrispondente sia per il quotidiano romano Il Messaggero sia per il settimanale Omnibus di Longanesi. In Spagna, le sue posizioni contro il regime si radicalizzarono. L'aver pubblicato un articolo sulla battaglia di Santander in cui la definì una passeggiata, con unico nemico il caldo, considerata offensiva dell'onore delle forze armate, gli costò l'esclusione dall'albo dei giornalisti, il rimpatrio e la sospensione dal Partito fascista. Mentre la sua simpatia per gli anarchici spagnoli lo portò ad aiutare uno di loro (accompagnandolo fuori frontiera). Un gesto che verrà ricompensato da El Campesino, capo anarchico della 46° divisione nella Guerra di Spagna, con il dono di una tessera della Federazione anarchica, di cui Montanelli si sarebbe fregiato per tutta la vita.

Gli inizi al Corriere della Sera

La presa di posizione contro il fascismo lo portò ai primi seri dissidi. Gli fu tolta la tessera del Partito, che poi nulla egli fece per riavere; così, per evitare il peggio, Giuseppe Bottai prima gli trovò in Estonia un lettorato di italiano nell'università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tallin di Tallinn. Ritornato in Italia, la sua rottura col Partito fascista si accentuò; ricevette sostegno da Aldo Borrelli, direttore del Corriere della Sera, che lo assunse nel 1938 come "redattore viaggiante", per occuparsi di articoli di viaggi e letteratura, con l'intenzione di porlo lontano da temi politici.

Fece il reporter in giro per l'Europa, in Albania, in Germania, dove si parla di un leggendario incontro, il 1° settembre 1939, sul "corridoio" di Danzica (cui seguì la dichiarazione di guerra, da parte dell'Inghilterra e della Francia, alla Germania nazista dando origine al secondo conflitto mondiale) con Hitler, alla presenza dello scultore Arno Brecker e dell'architetto Albert Speer (che confermò poi, nel 1979, la veridicità di quell'incontro), e come egli stesso ebbe modo di raccontare nel libro-intervista biografico Il testimone. Con lo scoppio della guerra, si allontanò dalla Germania. Si spostò quindi al fronte: oltre all'invasione della Polonia, assistette a quella della Norvegia ad opera dei tedeschi e dell'Estonia da parte dei russi. In Finlandia fu appassionato testimone del tentativo d'invasione da parte della Russia e nei suoi articoli traspariva una forte propensione per la causa finlandese.

Con l'entrata in guerra dell'Italia, Montanelli venne mandato in Francia e nei Balcani e poi avrà assegnato il compito di corrispondente dalla Grecia e dall’Albania, per seguire la campagna militare italiana. Qui racconta di aver scritto poco, per malattia e per costernazione di fronte alle necessità di propaganda del regime rispetto ai seri danni subiti dall'esercito italiano.

Finite le corrispondenze dal fronte, di nuovo in Italia, si sposò con Maggie De Colins De Tarsienne, un'austriaca, nel 1942. Nel 1943 visse lo sfascio dell'8 settembre e si associò a Giustizia e Libertà, il movimento partigiano. Divenne ricercato, e, scoperto dai tedeschi, fu incarcerato e condannato a morte. Dall'esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il racconto Il generale Della Rovere, da cui Roberto Rossellini realizzò un film che venne premiato con un Leone d'oro a Venezia. Uscì da San Vittore grazie a uno dei proprietari del "Corriere", Aldo Crespi, che versò di propria tasca 500.000 lire all'ufficiale SS Theodor Saevecke e a Luca Ostèria (un "agente doppio" noto come "dottor Ugo"), che ne organizzarono l'evasione: a suo favore, nel frattempo, c'era stata l' intercessione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, richiesta con una lettera dalla madre Maddalena e scoperta da Montanelli solamente molti anni dopo, grazie all'aiuto di uno dei suoi lettori. Riuscì ad allontanarsi dall'Italia grazie alla rete clandestina O.S.C.A.R..

L'immediato dopoguerra

Dopo il termine della guerra, iniziò ad occuparsi per il Corriere della Sera particolarmente di articoli di terza pagina. Nel 1946, assieme a Giovanni Ansaldo e Henry Furst, aiutò l'amico Leo Longanesi a fondare l'omonima sua casa editrice, dove pubblicò alcuni volumi di Incontri e la Storia di Roma con cui, nel 1957, iniziò la fortunata serie, edita dal 1959 presso Rizzoli, della storia d'Italia, che continua a godere di vasta popolarità. Tale opera (assieme all'ottocentesca Storia Universale di Cesare Cantù) ha venduto a tutt'oggi oltre un milione di copie, e risulta il saggio storico più venduto nella storia dell'editoria italiana.

La sua attività d'inviato lo portò a Budapest durante la rivoluzione ungherese del 1956. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, in seguito trasformata anche in un film, I sogni muoiono all'alba (1960), di cui curò anche la regia.

A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli rilanciava il mito secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all’azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene. Nei suoi numerosi interventi pubblici ha negato ostinatamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia

Tra le sue amicizie, si annoverano personaggi fondamentali nella cultura italiana dell'epoca, tra cui Leo Longanesi e Dino Buzzati.

Dichiaratamente anticomunista, "anarco-conservatore" (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini) e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente, in quanto foraggiate dall'allora superpotenza sovietica. La sinistra lo ricambiò attribuendogli negli anni settanta l'etichettatura di "fascista".

L'abbandono del Corriere

Nei primi anni settanta la proprietà del "Corriere" impresse una decisa virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972 costringendo alle dimissioni il direttore Giovanni Spadolini e sostituendolo con Piero Ottone. Nel 1973 anche Montanelli fu costretto a lasciare. Il 18 ottobre uscì una sua intervista sul settimanale economico Il Mondo in cui Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:

<<Ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di coraggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace>>

Appena la famiglia Crespi, proprietaria del Corriere, lesse l'intervista, preparò un'altra lettera di dimissioni. Montanelli però se ne andò volontariamente con un polemico articolo di commiato. L'articolo non fu pubblicato.

Montanelli decise di fondare un nuovo quotidiano. Sapeva che esisteva un pubblico già pronto a farne il proprio quotidiano di riferimento (nasceva in quegli anni il termine "maggioranza silenziosa"). Lo chiamò Il Giornale Nuovo. Nella sua "traversata nel deserto" dal Corriere al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima del Corriere; Piero Ottone ebbe a dire che Montanelli si stava portando via "l'argenteria di famiglia".

Trovò un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all'epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.

Direttore de il Giornale

Con il Giornale (il primo numero uscì il martedì 25 giugno 1974) che sin dal principio concepì come una testata d'opinione, tra la forte ostilità della stampa di sinistra e degli ambienti della borghesia radical-chic, Montanelli ebbe l'opportunità di rappresentare, coraggiosamente, con maggiore evidenza le proprie posizioni, sempre poco conformiste e spesso originalissime; in guisa di interlocutore esterno alla politica, non schierato se non su orientamenti di massima e fautore di una destra ideale, si inserì nel dibattito politico, contribuendo alla creazione della figura dell'opinionista politico di provenienza giornalistica.

Dinanzi alla crescita, che egli considerò pericolosa, del Partito Comunista Italiano, restò celebre la sua sollecitazione elettorale in favore della Democrazia Cristiana: "turiamoci il naso e votiamo DC" (ammettendo che questa frase l'aveva in realtà pronunciata per primo, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, Gaetano Salvemini).

L'attentato delle Brigate Rosse

Il 2 giugno del 1977 Montanelli fu vittima di un attentato delle Brigate Rosse, che gli spararono contro quattro colpi, colpendolo due volte alle gambe (secondo una pratica definita "gambizzazione") mentre si stava recando, come ogni mattina, al giornale. Secondo la rivendicazione dei terroristi, perché "schiavo delle multinazionali". Il Corriere gli dedicò un articolo omettendo il suo nome nel titolo ("Milano [...], gambizzato un giornalista"). Più ironico su La Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore di giornale, Eugenio Scalfari, che si puntava una canna di pistola contro il piede mentre leggeva la notizia dell'attentato a Montanelli, di cui invidiava la notorietà.

Proprio in quel periodo il corsivista de L’Unità, Fortebraccio scrisse di aver dettato per la propria tomba questo epitaffio: "Qui giace Fortebraccio, che segretamente amò Indro Montanelli. Passante perdonalo, perché non ha mai cessato di vergognarsene". Montanelli, con lo spirito che lo contraddistingueva, replicò prontamente avvertendo lo stesso Fortebraccio che lui aveva iscritto fra le sue ultime volontà quella di essere seppellito accanto al collega e rivale, con questo epitaffio: "Vedi lapide accanto".

I rapporti con Silvio Berlusconi

Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all'epoca costruttore edile. Pare che Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli abbia detto: "Sia chiaro, tu sei il proprietario e io sono il padrone, perché se così non fosse, io me ne andrò. La vocazione del servitore proprio non ce l'ho".

Il loro sodalizio durò senza contrasti fino al 1993; secondo la versione raccontata da Montanelli, in seguito alla "discesa in campo" di Berlusconi, questi si presentò alla redazione del Giornale e ordinò ai giornalisti che d'ora in avanti il quotidiano avrebbe supportato tutte le iniziative politiche del Cavaliere. Montanelli si rivoltò, rassegnando polemicamente le sue dimissioni. Attaccò duramente Berlusconi, paragonandolo a Mussolini ("ho già conosciuto un uomo della Provvidenza e mi era bastato"), considerandolo incapace di sopravvivere alla politica ("farà la fine del povero Antonio La Trippa: non riuscirà a mantenere le promesse che ha fatto agli italiani e dovrà andarsene").

Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli, decise di fondare una nuova testata insieme agli altri quaranta giornalisti dimissionari, La Voce, nome che scelse in omaggio a Giuseppe Prezzolini.

La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga, non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite, nonostante un esordio di 400.000 copie. Come egli stesso ebbe modo di dire, La Voce si proponeva un fenomeno troppo ambizioso: nella sua idea iniziale la nuova testata doveva essere un settimanale, o un mensile, sul modello de Il Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della "terza pagina", la sezione culturale, risultò particolarmente curata; tuttavia, il numero di giornalisti alle sue dipendenze lo spinsero verso un quotidiano. Tra questi un giovane Beppe Severgnini, Marco Travaglio e Peter Gomez, ora giornalisti e scrittori di fama internazionale.

Dopo la chiusura della Voce, tornò così a lavorare per il Corriere della Sera, per curare la pagina di colloquio coi lettori, la "Stanza di Montanelli", posta in chiusura del giornale.

Ultimi anni

Da molti considerato il più grande giornalista italiano, il suo lavoro giornalistico fu riconosciuto e premiato anche all'estero (Premio Principe delle Asturie 1996 in Spagna, una decorazione in Finlandia, dagli Stati Uniti gli arrivò il riconoscimento annuale come miglior giornalista internazionale). È stato autorevole cronista della storia italiana ed ha intervistato personaggi come Winston Churchill, Charles de Gaulle, Luigi Einaudi, Papa Giovanni XXIII.

La sua prassi giornalistica fu influenzata dal praticantato che fece in America, tenendo presente ciò che gli aveva detto il direttore del giornale di allora, vale a dire che ogni articolo deve poter essere letto e capito da chiunque, anche dal "lattaio dell'Ohio". Divenne membro onorario dell'Accademia della Crusca, per la quale si batté, sulle pagine del Giornale, cercando di coinvolgere direttamente i suo lettori, così che uno dei più antichi e importanti centri di studio sulla lingua italiana non scomparisse.

Nel 1991 Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, gli offrì la nomina a senatore a vita, ma Montanelli non la volle accettare, sostenendo che un giornalista dovrebbe stare a distanza di sicurezza dal potere, a garanzia della sua completa indipendenza.

Negli ultimi suoi anni Montanelli si distinse per la posizione profondamente critica assunta nei confronti del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, il suo ex editore. Fra le sue considerazioni più note, quella fatta poco tempo prima delle elezioni politiche del maggio 2001, quando, ritenendo Berlusconi vicino alla vittoria elettorale, lo paragonò ad una malattia e disse che l'Italia ne sarebbe guarita, similmente all'azione di un vaccino, in seguito al suo esercizio del potere.

 

 

Due mesi dopo si spense a Milano nella clinica de La Madonnina (lo stesso luogo dove 29 anni prima si era spenta un'altra figura storica del Corriere, Dino Buzzati). Il giorno seguente il direttore del Corriere della Sera rese pubblico in prima pagina, scritto dallo stesso Montanelli poco prima di morire, il suo necrologio: "Milano, 18 luglio 2001 - ore 1.40 del mattino. Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza Indro Montanelli, giornalista (Fucecchio 1909, Milano 2001), prende congedo dai suoi lettori, ringraziandoli dell'affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un'urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose né commemorazioni civili".Migliaia di persone sfilarono nella camera ardente dove, su una sedia, era posata una copia del Corriere.

Il suo amico-nemico Eugenio Scalfari lo ha definito "anarchico e guascone", più simile a Cirano che a Don Chisciotte: "Montanelli non ha mai combattuto contro i mulini a vento scambiandoli per minacciosi giganti, gli avversari che di volta in volta si sceglieva rappresentavano potenti realtà politiche o economiche, che Indro studiava con molta cura prima di muoverne all'attacco. Ne misurava la forza, ne coglieva il punto debole e lì sferrava il colpo". Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: "Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare".

 

 

 

 

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